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Calcio in tv, in Italia torna la Championship inglese

championshipnpowerSulla tv italiana torna la Championship, l’affascinante corrispettivo della nostra Serie B. Ad aggiudicarsi i diritti è stata Gazzetta TV, l’emittente sportiva del gruppo Rcs che trasmette sul canale 59 del digitale terrestre. Esclusiva per anni di Sportitalia, la Championship era scomparsa dai palinsesti nazionali da tempo e ora torna grazie all’offerta del canale legato allo storico quotidiano rosa, che lo scorso mese ha mandato in onda tutte le partite della Copa America di calcio, l’importante torneo delle nazionali sudamericane vinto dal Cile padrone di casa. Che sia proprio questa la nuova strategia di Gazzetta TV? Quella di puntare su tornei e campionati stranieri lasciati liberi dai grandi colossi della pay-tv? Di certo, sia la Copa America che la Championship non rappresentano affatto campionati ‘minori’, potendo contare su un discreto numero di appassionati in tutto il mondo e su uno spettacolo (calcistico e di contorno) di grande livello. La visione in chiaro della Championship è un tratto distintivo italiano sin dai tempi di Sportitalia; in Inghilterra, infatti, alcune partite vanno in onda su Sky Sports, mentre in Francia vengono trasmesse da beIN Sports, il network di canali sportivi a pagamento di proprietà di Al Jazeera.

Resta da capire come Gazzetta TV riuscirà a far fronte a un volume di diritti che, come noto, in Inghilterra tocca punte da capogiro. Per fare l’esempio riportato da Football Religion, nella stagione 2013-14, la squadra del Cardiff, ultima classificata della Premier League, il massimo campionato inglese, ha incassato 74,5 milioni di euro contro i 36,9 del Bayern Monaco, vincitore della Bundesliga tedesca e squadra di blasone europeo e mondiale. Ciò spiega, in parte, anche l’avvincente bellezza della Serie B inglese, dove a fianco dell’indubbia forza della tradizione, c’è anche una competitività agonistica legata alla possibilità per le 24 squadre (uno dei campionati più lunghi d’Europa) di arrivare tra le prime tre e accedere così al Paradiso dorato della Premier.

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Slow Tv, il fascino della lentezza sulla tv norvegese

Chi l’ha detto che la noia non può funzionare in televisione? Davvero la lentezza è nemica dell’intrattenimento? A giudicare da quel che accade da alcuni anni in Norvegia, sembrerebbe di no. ‘Slow Tv‘ è il nome con cui viene identificato questo inedito fenomeno sociale e mediatico che sta trasformando usi e consumi della televisione nel placido e tranquillo Paese scandinavo. La definizione, tuttavia, rende solo parzialmente idea del successo e delle sue motivazioni più profonde. Paesaggi mozzafiato, memorie personali, relax immersivo dopo una giornata frenetica, recupero di un’identità nazionale; tutto questo si fonde nei programmi (se così si possono chiamare) che la NRK, la tv pubblica norvegese, ha lanciato nei propri palinsesti come autentica scommessa e sfida ai format più diffusi. Già nella stagione 2009-10, per esempio, il primo esperimento di ‘Slow Tv’ coinvolse complessivamente 1.200.000 spettatori, più del 20% dell’intera popolazione nazionale che si attesta intorno ai 5 milioni: si trattava, nientemeno, del programma ‘Bergensbanen – minutt for minutt‘, la diretta completa di un viaggio in treno da Bergen a Oslo della durata complessiva di 7 ore e 14 minuti.

Poco dopo, è stata la volta di ‘Hurtigruten – minutt for minutt‘, la diretta di ben 134 ore (!) di una crociera lungo le coste norvegesi. Ciò che sorprende, nel relativo successo di pubblico della ‘Slow Tv’ è il fatto di trovarsi di fronte a un fenomeno non pienamente spiegabile con le categorie classiche della televisione; considerato una risposta all’invasione dei reality, dei factual, dei talent, dei canali all news dove deve sempre accadere qualcosa di eclatante, il fenomeno della ‘televisione lenta’ nasconde il proprio segreto proprio nella capacità di non far succedere sostanzialmente nulla per ore e ore. Eppure, a ben guardare, della real tv, del factual o del docu mostra l’aspetto più crudo ed essenziale, senza commenti o interruzioni.

Ecco perchè c’è chi si spinge a considerarlo un vero e proprio nuovo genere, meritevole di studi, analisi e approfondimenti meno ironici e superficiali di quelli che ne hanno accompagnato gli esordi: un seguitissimo blog (slowtelevision.blogspot) è nato proprio con l’intento di fornire una base teorica e scientifica al fenomeno, indagandone la storia, le prospettive, gli effetti sugli spettatori, gli adattamenti. Già, perchè naturalmente la ‘Slow Tv’ ha già varcato i confini norvegesi: accortasi dell’interesse che le serie scandinave generavano sul pubblico inglese, la BBC ha subito intrapreso una propria sperimentazione del genere, dedicando il proprio BBC Four a ‘dirette’ come ‘Dawn Chorus: The Sounds of Spring‘ o il tour di tre ore della National Gallery. E persino gli Stati Uniti, attraverso l’interessamento della piccola casa di produzione indipendente LMNO, sembrano in procinto di farsi coinvolgere dal fascino ambiguo e discreto di una televisione che, una volta tanto, non sembra avere fretta.

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Radio Isis ora trasmette anche in lingua inglese

La strategia comunicativa dell’Isis si fa sempre più globale. Da qualche giorno al-Bayan, il network radiofonico ufficiale dello Stato Islamico trasmette un bollettino informativo in lingua inglese, un breve resoconto di una decina di minuti, letto da uno speaker con accento statunitense che informa sui principali fatti del giorno dalle zone del mondo arabo maggiormente colpite da conflitti e operazioni militari.

La radio, che trasmette da Mosul, la città irachena in mano ai miliziani dell’Isis dallo scorso giugno, manda già in onda programmi, notizie e approfondimenti in lingua araba e russa e si arricchisce ora di potenziale pubblico occidentale. Non è la prima volta che lo Stato Islamico cerca di svolgere propaganda oltre i confini linguistici e culturali del mondo arabo; da tempo, infatti, l’Isis pubblica un mensile on line in lingua inglese dal titolo Dabiq (dal nome della cittadina della Siria settentrionale che fu teatro nel XVI secolo della sconfitta dei mamelucchi del sultano al-Ashraf Qansuh al-Ghuri ad opera degli ottomani), che oltre a news e informazioni contiene anche vere e proprie lezioni di religione islamica. La rivista, ben curata e graficamente di altissimo livello, contiene anche immagini cruente sia delle esecuzioni delle milizie terroristiche, sia delle devastazioni provocate dagli eserciti internazionali, e svolge, secondo gli analisti, un effetto importante per il reclutamento di seguaci residenti in Paesi occidentali.

Il network al-Bayan non va, tuttavia, confuso con Radio Bayan, una radio militare legata alle Nazioni Unite che trasmette dal presidio ISAF di Herat, in Afghanistan; guidata da un ufficiale dell’esercito italiano, il capitano Silvia Greco, Radio Bayan (il termine significa letteralmente “comunicare”) svolge un importante ruolo di ricostruzione e democratizzazione. Anche il palinsesto è più vario e ‘disimpegnato’; non guerra e propaganda, ma anche tanto intrattenimento e musica popolare, nella miglior tradizione del sistema mediatico arabo, da sempre orientato a generi e modelli capaci di stimolare coinvolgimento, emotività e leggerezza nel pubblico.

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Radio Days Europe, concluso a Milano il meeting del mondo radiofonico

SiRadio Days Europe 2015: Emotions, Ideas & Sharing è conclusa a Milano la sesta edizione di Radio Days Europe, il meeting annuale dedicato a operatori e broadcasters del settore radiofonico provenienti da tutta Europa (e non solo). Per tre giorni, dal 15 al 17 marzo, il Mi.Co Milano Congressi ha ospitato decine di convegni e testimonianze dall’interno del mondo della radio, le sue innovazioni di linguaggio e contenuto, il suo rapporto con le nuove tecnologie digitali, il ruolo determinante nell’informazione in tempo reale anche dai contesti più difficili e conflittuali. Quattro workshop all’ora, oltre cinquanta sessioni e centinaia di professionisti si sono confrontati sul futuro di un mezzo antico, ma ancora efficace e affascinante, precursore di linguaggi e tendenze e potenzialmente in grado di incrementare il proprio bacino di pubblico e di connettere mondi e culture differenti utilizzando le opportunità del mondo digitale; internet e social networks sono stati, infatti, alcuni dei temi maggiormente presenti negli interventi e nei dibattiti organizzati, ma non sono mancati spunti interessanti su argomenti come il diritto di cronaca, la satira e, ovviamente, la musica.

Trentadue i paesi europei rappresentanti, da quelli di grande tradizione radiofonica come Francia, Germania, Inghilterra a quelli di più recente esplosione del mezzo come la Polonia o altri stati dell’Europa dell’Est; discreta rappresentanza anche degli altri continenti, con i paesi asiatici su tutti. Equa distribuzione tra emittenti commerciali e stazioni di servizio pubblico, per un confronto e una riflessione quanto mai necessarie sul futuro di un modello misto di lunga tradizione (soprattutto in Europa) chiamato alle sfide dell’innovazione e del mercato. Il prossimo Radio Days Europe si terrà a Parigi nel marzo del 2016.

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Benefits Street, se la povertà diventa un format

Una strada di periferia, un contesto di difficoltà e degrado sociale, una telecamera che riprende scene di vita quotidiana mescolando lo sguardo profondo e documentaristico dell’inchiesta con il linguaggio serrato e leggero tipico del reality. Sono questi gli ingredienti di un format innovativo che ha letteralmente spopolato in Inghilterra nel corso dell’ultimo anno; Benefits Street, questo il nome del programma trasmesso dall’emittente di servizio pubblico Channel 4, è divenuto un vero e proprio fenomeno televisivo, trascinando una rete solitamente stabile intorno al 6% a punte del 20-21% pari a oltre 5 milioni di telespettatori.

Il documentario, girato interamente in una via della periferia di Birmingham, precisamente James Turner Street, è andato in onda per la prima volta il 6 gennaio del 2014 e si è protratto per cinque puntate; l’obiettivo era quello di raccontare la vita e il disagio di un quartiere dove regna la disoccupazione e dove oltre il 90% della popolazione vive grazie a sussidi statali (i cosiddetti benefits, appunto). Il successo di ascolti della trasmissione, tuttavia, si è accompagnato a polemiche circa le modalità della sua realizzazione, che hanno coinvolto tanto Channel 4, quanto la casa di produzione Love Productions, specializzata in generi come il docu-reality, il factual, i contenitori pomeridiani e l’intrattenimento in tutte le sue forme. Le critiche hanno riguardato l’opportunità di dare vita a uno show con al centro la povertà; la vicenda di Benefits Street è arrivata anche al Parlamento britannico, dove il cuore del dibattito è stato occupato sia dall’efficacia delle politiche di welfare, sia da questioni etiche relative al rispetto della dignità delle persone in condizioni di indigenza e sul racconto della povertà nella forma dell’intrattenimento e del reality-show.

 

Non solo; proprio per questo motivo, la messa in onda della seconda stagione del programma, già registrata lo scorso autunno nel quartiere di Tilery della città di Stockton-on-Tees, nel Nord-est del Paese (precisamente, in Kingston Road), è stata momentaneamente congelata, almeno fino alle elezioni generali per il rinnovo del Parlamento, previste per il mese di maggio.

Ad ogni modo, il fenomeno Benefits Street è in procinto di dilagare; la casa di produzione multinazionale FremantleMedia ha acquisito una parte dei diritti del format con l’intenzione di esportarlo e adattarlo anche in altri Paesi. Non sarà, tuttavia, un’impresa facile; il sistema dei sussidi di disoccupazione varia a seconda dei singoli contesti nazionali, così come la conformazione sociale dei quartieri e delle periferie più disagiate. Inoltre, il mondo britannico è storicamente più sensibile alle tematiche del lavoro e della perdita dello stesso, frutto di profondi traumi sociali ancora vivi nella memoria condivisa ciclicamente alimentati da una produzione cinematografica e letteraria di costante successo; un’idea di adattamento del format a cui sta lavorando FremantleMedia sembra quella di concentrarsi su altre marginalità, come per esempio l’impatto dell’immigrazione, con il rischio però di snaturare la chiave vincente, provocatoria e spiazzante allo stesso tempo, di un prodotto come Benefits Street.

 

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Frozen, la fiaba di Andersen e un film d’animazione sovietico come antenato

Un fenomeno globale senza precedenti nel mondo dell’animazione per bambini e ragazzi. Sebbene la Disney ci abbia abituato nel corso dei decenni a successi capaci di travalicare i confini delle nazioni (e delle generazioni), il caso di Frozen, pellicola uscita alla fine del 2013, rappresenta un caso emblematico di come l’industria culturale operi con l’obiettivo di sedimentare e cristallizzare icone e miti capaci di alimentarsi e riprodursi costantemente. Il film, vincitore di due premi Oscar come miglior pellicola d’animazione e per la miglior canzone (Let it go, riproposta in versioni e arrangiamenti sempre nuovi anche da artisti e musicisti di fama internazionale, come i Pearl Jam che l’hanno effettuata durante il concerto di Milano nel giugno dello scorso anno), ha realizzato il maggior incasso di sempre della categoria nella storia del cinema, mentre la colonna sonora è risultata essere il disco più venduto del 2014 con oltre 7 milioni di copie in tutto il mondo. Intorno a Frozen, si è poi strutturata una mania, capace di dare vita a un vero e proprio brand e ad estensioni del prodotto in diverse forme, dal merchandising all’abbigliamento fino alla costituzione di parchi a tema. 

La storia è nota: liberamente ispirata alla fiaba La regina delle nevi di Hans Cristian Andersen (1844), la pellicola dei registi Chris Buck e Jennifer Lee racconta la vicenda di due sorelle, Elsa e Anna, rispettivamente regina e principessa del regno di Arendelle, idealmente situato nei fiordi norvegesi. Sin da bambina, Elsa ha il potere di creare e manipolare il ghiaccio; un potere magico che è anche una maledizione, poiché potenzialmente non controllabile, come avviene durante la cerimonia d’incoronazione, e che costringe la regina a una vita di solitudine senza contatti con il mondo esterno.

Il racconto di Frozen non è, tuttavia, una novità assoluta nel panorama delle produzioni per ragazzi. Nonostante la Disney avesse in animo una realizzazione di questo genere almeno sin dagli anni Quaranta, mai era riuscita a trovare lo spunto per una narrazione; ci era invece riuscita la Soyuzmultfilm, casa di produzione dell’allora Unione Sovietica che nel 1957 aveva realizzato la trasposizione animata della fiaba di Andersen. Il progetto a cui lavorò il regista Lev Atamanov fu tradotto e adattato in diversi paesi, tra cui l’Italia dove ottenne un notevole successo; vincitore del primo premio nella categoria dei film d’animazione alla 18esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nello stesso anno, La regina delle nevi uscì nelle sale italiane nel 1959 (ma in televisione fu trasmessa solamente la versione statunitense, in onda per la prima volta nel giugno del 1990 su Rai Tre). Nella storia sovietica, la trasposizione della fiaba di Andersen è fedele e racconta le avventure di due bambini vicini di casa, Gerda e Kai; durante una tempesta di neve, quest’ultimo viene colpito al cuore da una scheggia di ghiaccio portatrice di una maledizione scagliata dalla maligna Regina delle Nevi (già, perchè nella fiaba originale la regina è un personaggio negativo, e forse è anche per questo che la Disney ha faticato tanto a trovare il meccanismo narrativo che ribaltasse i connotati dei protagonisti…). Tra i diversi adattamenti nazionali del lungometraggio sovietico, vale la pena ricordare quello giapponese, che ebbe una forte influenza sulla produzione del grande regista Hayao Miyazaki.

Dopo il successo di Frozen, il tema del ghiaccio è tornato in maniera dirompente nella produzione culturale e mediale americana; nella terza stagione di Once Upon a Time (serie tv di genere fantasy ispirata al mondo delle fiabe), infatti, compare il personaggio della regina Elsa, protagonista del film di Buck e Lee. Un omaggio a un successo globale e una garanzia di ascolti e interesse da parte del pubblico.

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Fuga dal conflitto, se il cinema israeliano scopre il fantasy e il western

Il cinema come strumento per evadere dalla propria realtà nazionale, anziché contribuire a consolidarne l’identità; la scelta di un genere come pretesto per lasciarsi alle spalle problemi, tensioni e violenze senza per questo rinunciare all’indagine sociale capace di scandagliare il costume e l’anima di un popolo. E’ quanto sta accadendo negli ultimi anni al cinema israeliano che, dopo un periodo di grande successo nell’ambito della commedia introspettiva, sta rapidamente virando verso narrazioni lontane dal crudo realismo, esplorando generi al confine con il fantastico. L’ultima scuola di giovani cineasti israeliani ha impresso una svolta; sembrano accantonati i racconti del conflitto arabo-israeliano e di una quotidianità fatta di sangue e guerra, per lasciare spazio a modi inediti di fare cinema, sposando generi culturalmente lontani rispetto al panorama mediorientale.

Un caso è rappresentato dal film Madame Yankelova’s Fine Literature Club del regista Guilhad Emilio Schenker, una sorta di mistery-fantasy in cui un gruppo di donne appartenenti a un ristretto club culturale si rende protagonista di rapimenti di uomini soli per ucciderli e lasciarsi andare poi a improbabili pratiche di cannibalismo. Oppure, quello che è stato definito il primo western ebraico, Der Mensch del 28enne regista Vania Heymann, già autore di numerosi videoclip musicali e spot pubblicitari; uno scenario alla Sergio Leone del tutto inedito per il cinema israeliano, dove l’omaggio al genere si mescola con immagini contemporanee, come il passaggio di un automobile nel cuore del deserto, davanti a un saloon; Der Mensch è la storia di uno strano cow-boy che viene ingaggiato dalle donne del luogo, intenzionate a divorziare, per uccidere i propri mariti.

Il tema del femminismo e della condizione della donna in Israele non è nuovo nel cinema nazionale (il film drammatico To take a wife del regista Ronik Elkabetz fu premiato al festival del cinema di Venezia nel 2004), ma lo sguardo di questa nuova generazione è prettamente finzionale, caricaturale, quasi si volesse fuggire dai temi che riguardano la quotidianità del proprio Paese, ma senza riuscire veramente a distaccarsene. In una recente intervista alla Bbc, Isaac Zablocki, direttore del Film Festival di Tel Aviv e del centro di filmografia israeliana di New York, ha sottolineato come questa tendenza riveli l’esistenza di una giovane generazione che vuole dimenticare il conflitto e le bombe e vuole vivere come i loro coetanei di altre parti del mondo occidentale.

L’ingresso del cinema israeliano in territori diversi dalla commedia drammatica tradizionale è cominciato alcuni anni fa con il successo del bellissimo Valzer con Bashir, film d’animazione di Ari Folman vincitore del Golden Globe 2009, che racconta con crudezza e nella forma del documentario il massacro di Sabra e Shatila del 1982. Ma si tratta pur sempre di un film che invita a fare i conti con la propria storia, come hanno fatto altre pellicole quali Qualcuno con cui correre o Camminando sull’acqua; con la nuova ondata di fantasy e western, invece, il cinema israeliano sembra voler uscire dagli angusti confini nazionali e da una storia ricca di dolore, ma anche di contraddizioni, per ancorarsi a una dimensione più globale incontrando generi e linguaggi radicati in altri contesti occidentali. Una scelta che ha già pagato anche nell’ambito delle serie televisive; di produzione israeliana è, infatti, Be Tipul, la fiction che ha ispirato In Treatment, racconto seriale sul mondo della psicologia e delle sedute terapeutiche, e che ha dato origine a decine di adattamenti in tutto il mondo.

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AgonChannel, da oggi in chiaro la Tv italo-albanese

Oggi mercoledì 26 novembre, si alza il sipario sull’avventura italiana di AgonChannel, canale televisivo albanese che sarà visibile in chiaro nel nostro Paese sul canale 33 del digitale terreste. Fondata dall’imprenditore italiano Francesco Becchetti, AgonChannel trasmette già da alcuni anni sulla tv albanese, dove ha arruolato anche diversi volti del piccolo schermo italiano, da Barbara D’Urso, che ha condotto un talk-show dal titolo Kontrate per Shqipterine molto simile ai contenitori pomeridiani che la vedono impegnata sulle reti Mediaset, fino ad Alessio Vinci, l’ex conduttore di Matrix diventato direttore editoriale del canale.

Con l’arrivo sugli schermi italiani, AgonChannel compie un salto di qualità che la accredita come emittente transnazionale in grado di connettere due Paesi divisi dal mar Adriatico, ma dove il ruolo della televisione ha svolto una funzione decisiva nel processo di avvicinamento. Dal primo ingresso della Rai a Tirana nel maggio del 1990, poco dopo la caduta del muro di Berlino (lo abbiamo raccontato con un’intervista al regista Gjon Kolndrekaj) passando per i numerosi giovani albanesi innamoratisi dell’Italia captando i segnali di programmi come Striscia la Notizia, la dipendenza della tv albanese da quella italiana ha rappresentato un importante veicolo di integrazione.

Per questa nuova avventura, AgonChannel trasmetterà da un capannone alla periferia di Tirana con evidenti risvolti sui costi tecnici e amministrativi: Becchetti ha arruolato volti noti e meno noti del panorama televisivo italiano, da Sabrina Ferilli a Luisella Costamagna, dal cantante Pupo al giornalista Antonio Caprarica, storica voce del Tg1 che dirigerà le dieci finestre informative al giorno. In un paese dove vivono oltre 500mila albanesi, AgonChannel mira a sparigliare il mercato televisivo italiano puntando sui generi più diffusi e amati dal pubblico: ci saranno quiz, talk-show e un reality sportivo come Leyton Orient, dal nome della squadra di calcio inglese di terza divisione di cui è proprietario lo stesso Becchetti. Tutto con un’impronta molto italiana; degna chiusura di un cerchio aperto venticinque anni fa con la scoperta della nostra tv, della nostra cultura di massa e del nostro stile di vita.

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Ddr, anche la discografia di Stato divenne globale

Si chiamava AMIGA (tutto maiuscolo) e per interi decenni ha rappresentato la ‘via socialista’ all’industria discografica nella Ddr, la Germania Orientale che rimase in vita fino alla caduta del muro di Berlino di cui oggi si celebra il venticinquesimo anniversario. Già, perchè nel modello dell’economia di Stato che accomunava i paesi dell’orbita sovietica, tutto era nazionalizzato, compresi i prodotti culturali. La musica non restò esente: AMIGA era nata nel 1947, quando ancora la Repubblica Democratica Tedesca (come si faceva chiamare la Germania dell’Est) non esisteva formalmente. Dalla metà degli anni ’50, entrò a far parte della VEB Deutsche Schallplatten, la casa discografica detentrice del monopolio statale sulla produzione e diffusione della musica. AMIGA costruì negli anni un catalogo vasto ed eterogeneo, arrivando a raggiungere oltre duemila album, più di cinquemila singoli, e un totale di 30mila titoli, spaziando su diversi generi: dal folk al jazz (con la creazione dell’etichetta dedicata Amiga Jazz), dalla musica per bambini al rock fino alle canzoni politiche.

Front cover Photo of Pink Floyd Wish You Were Here DDR AMIGA http://www.vinylrecords.chTutti i più importanti artisti e cantautori pop della Germania Orientale venivano prodotti da AMIGA e da lì distribuiti non solo negli altri paesi comunisti confinanti, ma anche di là dal muro, nella Germania Ovest. Tuttavia, se da un punto di vista organizzativo poteva sembrare un esperimento, più o meno riuscito, di ‘autarchia musicale’, così non era sotto il profilo dei generi, dei contenuti e dell’offerta musicale proposta: sotto l’etichetta AMIGA, infatti, trovarono spazio e distribuzione tra i giovani della Ddr anche gli album delle più importanti band occidentali, come Beatles, Pink Floyd, ABBA, e altri, come testimonia anche una sezione specifica dedicata all’etichetta sul sito 45-sleeves.com. A fianco di AMIGA, poi, la casa madre della VEB Deutsche Schallplatten creò etichette tematiche dai nomi esotici e mitici come LITERA, che registrava fiabe e narrazioni fantastiche destinate al mercato dei bambini, ETERNA, per la musica classica e l’opera, SCHOLA, per la diffusione di materiale educativo, AURORA, che proponeva musica per la working class fedele ai principi del progetto politico e culturale del socialismo.

Con la caduta del muro e la fine dei regimi comunisti, terminò anche l’esperienza di AMIGA e della ‘discografia di Stato’; la furia privatizzatrice che si scatenò nei paesi dell’Europa orientale non risparmiò nulla. Oltre all’industria pesante, anche quella legata all’immaginario fu travolta dall’ingresso delle grandi multinazionali occidentali che portarono investimenti e diffusione di ricchezza, ma non risparmiarono i simboli che avevano modellato un’intera società nei decenni precedenti. Amiga (questa volta con la sola iniziale maiuscola) fu acquisita nel 1994 dal colosso globale tedesco Bertelsmann Music Group; negli ultimi anni, il gruppo discografico ha ristampato e riproposto in formato cd quasi tutti gli album che erano stati prodotti ai tempi della Ddr. Anche la globalizzazione ha bisogno di radici; e così oggi riscopre il business della cosiddetta ostalgia, la nostalgia per il passato che sta attraversando diversi paesi ex socialisti, i quali investono nella riproduzione di messaggi e immagini di ciò che erano prima di quel novembre di venticinque anni fa.

Quando la Rai entrò in Albania. Intervista con Gjon Kolndrekaj

Divisi dal Mar Adriatico, ma uniti da storie, culture e tradizioni che in più di un’occasione, nel corso dei secoli, li hanno visti influenzarsi l’un l’altro. Due Paesi, Italia e Albania, che condividono più di quanto l’apparenza lascerebbe supporre; c’è un filo sottile che attraversa e avvicina le sponde di due nazioni che spesso hanno visto incrociare i propri destini. Non solo colonialismo, immigrazione e relazioni commerciali, ma anche comunità, lingue e, in tempi recenti, televisione. Già, perché se c’è un aspetto che più di altri spiega la rinnovata vicinanza tra i due Paesi negli ultimi decenni, questo è da ricercare nel piccolo schermo, nella sua influenza sul processo migratorio verso le coste italiane e sulla costruzione di un immaginario che ha plasmato sogni, speranze e ambizioni di intere generazioni di giovani albanesi. La complessa vicenda del ruolo esercitato dalla televisione italiana nell’accelerare il processo di transizione e fuoriuscita dal comunismo in Albania è stata dettagliatamente affrontata da Ylli Polovina nel suo libro ‘Rai & Albania‘ (RaiEri, 2002), e recentemente è tornata d’interesse anche in ambito accademico. Snodo decisivo di quel processo fu senza dubbio una storica puntata di ‘Linea Verde‘, rotocalco televisivo della Rai dedicato al mondo dell’agricoltura, che nel maggio del 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, andò in onda da Tirana e da altri luoghi dell’Albania, svelando al pubblico italiano un Paese tanto vicino quanto oscuro. La trasmissione fu trasmessa anche sulla tv di Stato albanese, ancora sotto stretto controllo del regime; per la prima volta, una troupe occidentale poteva riprendere e raccontare la nazione più povera, ostile e sconosciuta dell’intero blocco dei paesi comunisti. Artefice di quel raro momento di storia televisiva fu Gjon Kolndrekaj, regista e anima della trasmissione insieme al conduttore Federico Fazzuoli; di origine kosovara, in Italia dal 1974, Kolndrekaj fu regista del programma domenicale di Rai Uno dal 1987 al 1995. Attualmente è presidente di CrossinMedia Group, società di produzione cross-mediale e sta lavorando a un progetto di video-catechismo in diverse parti del mondo. A lui abbiamo chiesto di ripercorrere il primo ingresso della tv pubblica italiana sul suolo albanese.

Come nacque l’idea di mettere in piedi una puntata di ‘Linea Verde’ in una terra ancora ostica e difficile da penetrare? Bisogna precisare che già da alcuni anni ‘Linea Verde’ aveva un’impostazione internazionale, con almeno una puntata al mese che veniva registrata e andava in onda dall’estero. Dal 1987, quando si cominciarono ad avvertire i primi segnali di scricchiolio all’interno dei paesi comunisti, decidemmo di dedicare l’attenzione all’Europa dell’Est. La puntata del dicembre ’87 dalla Polonia fu un successo incredibile per la Rai, con 12 milioni di telespettatori e il 54% di share; girammo la Polonia in elicottero insieme a un docente dell’Università di Varsavia esperto di ecologia, sfiorando le ciminiere del sud, nei dintorni di Cracovia, e mostrando i disastri ambientali prodotti nelle foreste intorno. Qualche settimana dopo, eravamo in Jugoslavia, dove già si cominciava a respirare una brutta aria di tensioni e divisioni. Volevamo capire e raccontare cosa stava accadendo nell’Est Europa e spesso ci capitò di vivere la storia in diretta: trasmettemmo dalla Germania Orientale due settimane prima della caduta del Muro, dalla Romania tre giorni dopo l’uccisione di Ceausescu e della moglie. Nella primavera del 1990, mentre tutto il mondo ormai conosceva e parlava di ex Urss, di Polonia, di Cecoslovacchia, e così via, decidemmo di andare alla scoperta di una nazione ancora dimenticata come l’Albania.

Come avvenne la preparazione? Quali furono i rischi maggiori? Arrivammo a Tirana il 20 maggio 1990. Era un mercoledì, la puntata sarebbe poi andata in onda nella mattinata di domenica 24. Ci rendemmo subito conto che eravamo di fronte a una messinscena del regime: ci obbligarono a seguire un itinerario preciso, dove contadini ci parlavano di improbabili coltivazioni avanzate di agricoltura biologica e di energie pulite. Nei campi, incontravamo donne che si mostravano felici di zappare in terreni tanto morbidi e fertili. Tutto era costruito secondo le regole della propaganda, per cui verso sera minacciai di rientrare in Italia e di far saltare la trasmissione per non tradire i nostri milioni di telespettatori italiani. Chiesi e ottenni un incontro col presidente della Repubblica Ramiz Alia, il quale si mostrò molto affabile e, incredibilmente, ci mise a disposizione l’elicottero presidenziale con cui girare e riprendere liberamente sul territorio albanese, secondo la tradizione di ‘Linea Verde’. Quando ci chiesero che cosa avevamo ripreso, risposi che era uscito un capolavoro; chiesi infine ad Alia se poteva liberare l’antenna per trasmettere liberamente la trasmissione anche in Albania e ci fu concesso. Fu un successo clamoroso, all’ora di pranzo le strade si svuotarono e tutti coloro che avevano un televisore si chiusero in casa a vedere l’Occidente che parlava di loro.

Non pensa che il potere abbia voluto usare quest’opportunità per trasmettere un’immagine di trasparenza e incanalare un cambiamento ormai inevitabile? Sì, può darsi che per liberarsi dalla prigione che esso stesso aveva creato, il regime volesse aprirsi e cercasse una via d’uscita piuttosto indolore. Del resto, quando la televisione va alla ricerca della verità e dell’identità delle nazioni e dei popoli, diventa una forza di cambiamento inarrestabile. Purtroppo, oggi il giornalismo sta perdendo la bellezza del racconto e il pubblico sta abbandonando il piacere di essere informato sul bello, sul vero.

Come fu possibile che una popolazione arretrata e soggetta per decenni alla propaganda riuscì a farsi travolgere in quel modo dall’apertura verso la verità? Il popolo albanese ha sempre creduto fortemente nei propri valori; è un popolo mite che sa aprirsi, confrontarsi e convivere, in quanto da sempre crocevia di culture e religioni. Il regime di Hoxha ha chiuso l’anima del popolo albanese per quarant’anni, ma il senso della propria identità è sopravvissuto a tutti i soprusi.

L’Albania era pronta per quell’esposizione mediatica? No, non credo che lo fosse. Come regista e operatore della comunicazione, fu uno dei momenti più delicati della mia carriera; si trattava di far emergere la sofferenza e la speranza di un popolo di cui nessuno sapeva realmente nulla. Anche per questo motivo, decidemmo di tornare in altre occasioni in Albania: una prima volta subito dopo l’arrivo della nave Vlora al porto di Bari con 20mila migranti albanesi, nell’estate del ’91. E, infine, per raccontare l’avvio delle privatizzazioni e la fine dell’economia di Stato. Idealmente, l’ultimo tassello di una ‘trilogia sull’Albania’ che consentì a ‘Linea Verde’ e a tutta la tv italiana di vivere in presa diretta la trasformazione di un Paese a noi così vicino.