Divisi dal Mar Adriatico, ma uniti da storie, culture e tradizioni che in più di un’occasione, nel corso dei secoli, li hanno visti influenzarsi l’un l’altro. Due Paesi, Italia e Albania, che condividono più di quanto l’apparenza lascerebbe supporre; c’è un filo sottile che attraversa e avvicina le sponde di due nazioni che spesso hanno visto incrociare i propri destini. Non solo colonialismo, immigrazione e relazioni commerciali, ma anche comunità, lingue e, in tempi recenti, televisione. Già, perché se c’è un aspetto che più di altri spiega la rinnovata vicinanza tra i due Paesi negli ultimi decenni, questo è da ricercare nel piccolo schermo, nella sua influenza sul processo migratorio verso le coste italiane e sulla costruzione di un immaginario che ha plasmato sogni, speranze e ambizioni di intere generazioni di giovani albanesi. La complessa vicenda del ruolo esercitato dalla televisione italiana nell’accelerare il processo di transizione e fuoriuscita dal comunismo in Albania è stata dettagliatamente affrontata da Ylli Polovina nel suo libro ‘Rai & Albania‘ (RaiEri, 2002), e recentemente è tornata d’interesse anche in ambito accademico. Snodo decisivo di quel processo fu senza dubbio una storica puntata di ‘Linea Verde‘, rotocalco televisivo della Rai dedicato al mondo dell’agricoltura, che nel maggio del 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, andò in onda da Tirana e da altri luoghi dell’Albania, svelando al pubblico italiano un Paese tanto vicino quanto oscuro. La trasmissione fu trasmessa anche sulla tv di Stato albanese, ancora sotto stretto controllo del regime; per la prima volta, una troupe occidentale poteva riprendere e raccontare la nazione più povera, ostile e sconosciuta dell’intero blocco dei paesi comunisti. Artefice di quel raro momento di storia televisiva fu Gjon Kolndrekaj, regista e anima della trasmissione insieme al conduttore Federico Fazzuoli; di origine kosovara, in Italia dal 1974, Kolndrekaj fu regista del programma domenicale di Rai Uno dal 1987 al 1995. Attualmente è presidente di CrossinMedia Group, società di produzione cross-mediale e sta lavorando a un progetto di video-catechismo in diverse parti del mondo. A lui abbiamo chiesto di ripercorrere il primo ingresso della tv pubblica italiana sul suolo albanese.
Come nacque l’idea di mettere in piedi una puntata di ‘Linea Verde’ in una terra ancora ostica e difficile da penetrare? Bisogna precisare che già da alcuni anni ‘Linea Verde’ aveva un’impostazione internazionale, con almeno una puntata al mese che veniva registrata e andava in onda dall’estero. Dal 1987, quando si cominciarono ad avvertire i primi segnali di scricchiolio all’interno dei paesi comunisti, decidemmo di dedicare l’attenzione all’Europa dell’Est. La puntata del dicembre ’87 dalla Polonia fu un successo incredibile per la Rai, con 12 milioni di telespettatori e il 54% di share; girammo la Polonia in elicottero insieme a un docente dell’Università di Varsavia esperto di ecologia, sfiorando le ciminiere del sud, nei dintorni di Cracovia, e mostrando i disastri ambientali prodotti nelle foreste intorno. Qualche settimana dopo, eravamo in Jugoslavia, dove già si cominciava a respirare una brutta aria di tensioni e divisioni. Volevamo capire e raccontare cosa stava accadendo nell’Est Europa e spesso ci capitò di vivere la storia in diretta: trasmettemmo dalla Germania Orientale due settimane prima della caduta del Muro, dalla Romania tre giorni dopo l’uccisione di Ceausescu e della moglie. Nella primavera del 1990, mentre tutto il mondo ormai conosceva e parlava di ex Urss, di Polonia, di Cecoslovacchia, e così via, decidemmo di andare alla scoperta di una nazione ancora dimenticata come l’Albania.
Come avvenne la preparazione? Quali furono i rischi maggiori? Arrivammo a Tirana il 20 maggio 1990. Era un mercoledì, la puntata sarebbe poi andata in onda nella mattinata di domenica 24. Ci rendemmo subito conto che eravamo di fronte a una messinscena del regime: ci obbligarono a seguire un itinerario preciso, dove contadini ci parlavano di improbabili coltivazioni avanzate di agricoltura biologica e di energie pulite. Nei campi, incontravamo donne che si mostravano felici di zappare in terreni tanto morbidi e fertili. Tutto era costruito secondo le regole della propaganda, per cui verso sera minacciai di rientrare in Italia e di far saltare la trasmissione per non tradire i nostri milioni di telespettatori italiani. Chiesi e ottenni un incontro col presidente della Repubblica Ramiz Alia, il quale si mostrò molto affabile e, incredibilmente, ci mise a disposizione l’elicottero presidenziale con cui girare e riprendere liberamente sul territorio albanese, secondo la tradizione di ‘Linea Verde’. Quando ci chiesero che cosa avevamo ripreso, risposi che era uscito un capolavoro; chiesi infine ad Alia se poteva liberare l’antenna per trasmettere liberamente la trasmissione anche in Albania e ci fu concesso. Fu un successo clamoroso, all’ora di pranzo le strade si svuotarono e tutti coloro che avevano un televisore si chiusero in casa a vedere l’Occidente che parlava di loro.
Non pensa che il potere abbia voluto usare quest’opportunità per trasmettere un’immagine di trasparenza e incanalare un cambiamento ormai inevitabile? Sì, può darsi che per liberarsi dalla prigione che esso stesso aveva creato, il regime volesse aprirsi e cercasse una via d’uscita piuttosto indolore. Del resto, quando la televisione va alla ricerca della verità e dell’identità delle nazioni e dei popoli, diventa una forza di cambiamento inarrestabile. Purtroppo, oggi il giornalismo sta perdendo la bellezza del racconto e il pubblico sta abbandonando il piacere di essere informato sul bello, sul vero.
Come fu possibile che una popolazione arretrata e soggetta per decenni alla propaganda riuscì a farsi travolgere in quel modo dall’apertura verso la verità? Il popolo albanese ha sempre creduto fortemente nei propri valori; è un popolo mite che sa aprirsi, confrontarsi e convivere, in quanto da sempre crocevia di culture e religioni. Il regime di Hoxha ha chiuso l’anima del popolo albanese per quarant’anni, ma il senso della propria identità è sopravvissuto a tutti i soprusi.
L’Albania era pronta per quell’esposizione mediatica? No, non credo che lo fosse. Come regista e operatore della comunicazione, fu uno dei momenti più delicati della mia carriera; si trattava di far emergere la sofferenza e la speranza di un popolo di cui nessuno sapeva realmente nulla. Anche per questo motivo, decidemmo di tornare in altre occasioni in Albania: una prima volta subito dopo l’arrivo della nave Vlora al porto di Bari con 20mila migranti albanesi, nell’estate del ’91. E, infine, per raccontare l’avvio delle privatizzazioni e la fine dell’economia di Stato. Idealmente, l’ultimo tassello di una ‘trilogia sull’Albania’ che consentì a ‘Linea Verde’ e a tutta la tv italiana di vivere in presa diretta la trasformazione di un Paese a noi così vicino.